GLOBALIZZAZIONE – METRO
Gli antichi romani furono grandi perché rispettarono sempre le religioni e le tradizioni dei popoli conquistati. La globalizzazione schiaccia e annulla le radici dei popoli e li massifica sotto un unico colore. Facciamo un esempio: i globalizzatori ci dicono che un farmaco è utile per una data patologia, indistintamente per un messicano come per un finlandese, senza tenere conto che le capacità reattive dei sistemi biologici e l’ambiente fisico e psichico nel quale la malattia si sviluppa sono completamente diversi. E ci dicono anche che una determinata malattia è causata solo da uno specifico fattore, in Corea come in Brasile, in Norvegia come in Sudafrica. Ma non si tiene conto dei tanti elementi che concorrono a generare una malattia, diversi da paese a paese. E ancora i globalizzatori sostengono che tutti gli organismi sono uguali ed in modo uguale si ammalano. Ma tutti sappiamo che gli Indios del Sudamerica furono sterminati dall’Influenza e dal Morbillo, malattie che in Occidente producono solo febbre e qualche fastidioso sintomo. La realtà è che uno degli effetti negativi della globalizzazione è la scomparsa dell’etica e con essa del rispetto per la cultura e le regole locali. Se viene meno l’etica, intesa come attenzione per le realtà di ogni singolo popolo con la sua storia, le sue tradizioni e le sue regole, viene meno il rispetto per ogni singolo individuo che a quel popolo appartiene, individuo che, nel caso della Medicina, deve poter essere curato in ragione della sua unicità, pur se inserito nell’unità della materia vivente. Il concetto estremo della globalizzazione dice che esiste una determinata malattia, il concetto in armonia con le nostre tradizioni dice che esiste un determinato malato. C’è una grande differenza. La stessa cosa si osserva nel mondo del lavoro. Una multinazionale che decide il destino di una sua filiale in un paese di un lontano continente, lo fa ignorando quali tradizioni, regole, normative e condizioni sociali vi sono in quel paese, decide sempre con un unico parametro uguale per tutti in tutto il mondo. Non è mio compito stabilire se ciò sia bene o male, lascio ad altri più grandi di me valutare il destino dell’umanità, ma scopro nei malati che vedo un malessere profondo dovuto alla perdita delle proprie radici e delle proprie tradizioni. Presso un popolo “primitivo” dell’Oceania dove un’ascia rudimentale rappresentava il simbolo del potere e della conoscenza, gli occidentali regalarono centinaia di asce di acciaio inossidabile, delegittimando così quell’unico simbolo. Da allora, in quel popolo, comparve il cancro. Abbiamo bisogno di etica: in politica, in medicina, nel mondo del lavoro, nei rapporti interpersonali, nell’amicizia, nell’amore. Un ultras di una squadra di Roma mi ha detto: “essere ultras vuol dire amare la propria curva intesa come cuore pulsante dei quartieri e delle borgate della nostra città”. Non ci leggete un profondo desiderio di appartenenza ad un’identità collettiva? E cosa può garantire questo se non l’etica? Il rispetto per gli usi, i costumi, le religioni e le regole che formano le radici e l’identità di quelli che si chiamano esseri umani. Non si può omologare l’anima. Non si può uniformare l’anima ad un identico colore. Sarebbe bello se i globalizzatori meditassero su quanto scriveva Yeats, in tempi non sospetti: “Triste cosa è l’essere umano, giacca strappata su uno stecco, se l’anima non può battere le mani e poi cantare, cantare più forte.”.